Ciò che saremmo tentati di credere è che vista la forte crescita economica e l’espansione dei sistemi di istruzione superiore delle economie cosiddette emergenti del BRIC – Brasile, Russia, India e Cina – attrarranno a sé gli studenti che oggi si recano all’estero per studio e chi, già laureato, si è ormai stabilito in Occidente. In realtà, pare proprio che non sia così secondo i dati ufficiali. La fuga di cervelli, oggi eufemisticamente chiamato lo “scambio di cervelli”, sembra essere vivo e vegeto.
L’Istituto Internazionale di istruzione superiore ha pubblicato lo scorso agosto uno studio di Dongbin Kim, Charles AS Bankart e Laura Isdell, nel quale si dimostra che la grande maggioranza dei dottorandi internazionali che studiano nelle università americane rimangono negli Stati Uniti dopo la laurea. Ancora più sorprendentemente, la percentuale di coloro che scelgono di rimanere negli Stati Uniti è aumentata nel corso degli ultimi tre decenni, apparentemente a prescindere dalla crescita e dall’espansione avvenuta a livello accademico.
È evidente che viviamo in un’era di mobilità globale di talenti altamente qualificati, sia a livello generale che più propriamente accademico, ma i flussi di mobilità agiscono in gran parte in una sola direzione – dai paesi in via di sviluppo e dalle economie emergenti alle nazioni più ricche, in particolare verso i paesi anglofoni e francofoni. Molto è stato scritto sulla presunta obsolescenza della cosiddetta “fuga dei cervelli”, sostenendo che la globalizzazione porti con se nella sua corsa una forza lavoro altamente qualificata e dinamica, che conduce alla creazione di una sorta di scambio di menti tra i diversi paesi. I dati mostrano al contrario che la mobilità procede in modo consistente lungo una sola via, verso le nazioni più ricche. Vi è sì un crescente flusso di persone e ritorno di capitale verso i paesi di origine, ma il maggior contributo economico e sociale viene compiuto nel paese in cui l’individuo si trova in prima battuta per studio o lavoro. Le realtà della globalizzazione rimangono altamente diseguali. Anche se le menti non espatriano in modo permanente, sono comunque dirottate per un certo periodo, con la possibilità (spesso non scontata) di tornare alle loro origini.
Chi va e chi resta?
I paesi con la più impressionante espansione economica ed educativa sembrano essere quelli con i maggiori tassi di ‘soggiorno’. Per esempio, durante gli anni ‘80, il 25,9% dei laureati cinesi erano rientrati in patria dopo essersi laureati. Negli anni 2000, la percentuale di ritorno era scesa al 7,4%. Anche per l’India le cifre sono anche piuttosto basse – 13,1% nel 1980 e 10,3% nel 2000.
Tuttavia, i tassi di rientro variano notevolmente, spaziando dall’84% di Thais al 60% dei messicani e brasiliani e il 39,5% degli africani. Una sorpresa è il tasso europeo per i rimpatri, passato dal 36,9% al 25,7% in oltre 30 anni. Le donne hanno più probabilità di rimanere negli Stati Uniti rispetto agli uomini. Gli studenti stranieri che ottengono la loro laurea negli Stati Uniti hanno maggiori probabilità di restare, come lo sono gli studenti che provengono da famiglie istruite. Anche il campo di studio fa la differenza, ad esempio con un titolo di laurea in agricoltura rientra il 54,2%, nel campo dell’istruzione il 48,5% e le nelle scienze sociali il 44,1%, in biologia il 19,3, nelle scienze fisiche il 21,8 % e in economia il 31,9%.
Modelli e politiche
Le Università americane beneficiano di un gran numero di studiosi e scienziati immigrati nelle loro facoltà, anche in posizioni di leadership.
Perché i titolari di dottorato internazionali scelgono di rimanere negli Stati Uniti?
In primo luogo, negli States i termini e le condizioni del lavoro accademico – inclusi gli stipendi – sono piuttosto buoni. Inoltre, dopo aver studiato negli Stati Uniti, i titolari di una laurea internazionale hanno familiarità con il sistema accademico americano e spesso possono chiedere ai docenti e tutor che li hanno seguiti di assisterli nella ricerca di un lavoro nel mercato locale.
Anche se alcuni paesi, come in Cina, sono stati attivati incentivi di offerta e lavoro per i migliori laureati che fanno ritorno in patria, si tratta spesso di piccoli programmi che riguardano solo l’elite. Tornare a casa e lavorare in istituzioni accademiche gerarchica e, talvolta, mal equipaggiate non è certo una prospettiva particolarmente allettante. Nelle economie emergenti, gli stipendi accademici sono bassi e il lavoro nero è spesso necessario per supportare uno stile di vita medio. Anche nelle migliori università cinesi, che hanno ricevuto massicci finanziamenti e hanno costruito imponenti campus, la cultura accademica è spesso problematica per i laureati che hanno familiarità con le istituzioni aperte e meritocratiche degli Stati Uniti o di altri sistemi più consolidati a livello accademico. Anche se le condizioni lavorative e i salari possono essere migliore nei settori emergenti dell’alta tecnologia e dell’economia, i problemi persistono. Gli sforzi da parte di paesi come la Cina e l’India per attirare in patria i loro laureati sono stati per lo più senza successo. Allo stesso modo, alcune nazioni europee, tra cui la Germania, hanno cercato di invogliare i loro dottori a tornare, anche in questo caso, con modesto successo.
Anche le politiche di immigrazione dei paesi ricchi svolgono un ruolo centrale in questa vicenda. Nonostante il successo che gli Stati Uniti raccolgono nel mantenere nei suoi confini laureati internazionali, la politica di immigrazione degli Stati Uniti fino a poco tempo non era certo finalizzata a facilitare l’ingresso nel paese. Altri paesi, compresi Canada e Australia, hanno attuato delle politiche di immigrazione per favorire lo stanziamento dei giovani laureati internazionali. Anche i Paesi europei si stanno muovendo in questa direzione.
fonte: universityworldnews.com
Lascia un commento